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A review by ilariam
Abbiamo sempre vissuto nel castello by Shirley Jackson
4.0
Cercando notizie su Shirley Jackson, quel che viene immancabilmente ricordato è l'omaggio di Stephen King a colei che riconosce come maestra dell'horror moderno (insieme a nomi come Matheson e Levin) nella dedica de L'Incendiaria:
"In memory of Shirley Jackson, who never needed to raise her voice."
E proprio da Stephen King e dal suo Danse Macabre si ricava una definizione di horror perfettamente calzante nel descrivere Abbiamo sempre vissuto nel castello:
The horror film is an invitation to indulge in deviant, antisocial behaviour by proxy – to commit gratuitous acts of violence, indulge our puerile dreams of power, to give into our most craven fears. Perhaps more than anything else, the horror story or horror movie says it’s OK to join the mob, to become the total tribal being, to destroy the outsider.
King parla di film e ha in mente un altro racconto della Jackson, La Lotteria, ma quanto scritto calza a pennello anche al mondo che viene delineato attraverso le parole di Mary Katherine,o, più affettuosamente, Merricat, la voce narrante della storia:
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti."
Già nell'incipit, in fondo, ci viene fornita la soluzione al mistero che aleggia sullo sfondo, la morte dei Blackwood una sera di sei anni prima, ed esplicitarla in quella che dovrebbe essere la rivelazione finale è quasi un surplus.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Due sorelle ed un anziano zio che vivono praticamente reclusi nella villa di famiglia, guardati con astio e livore dagli abitanti del paese: tra gli agiati e sdegnosi Blackwood e gli "altri" non è mai corso buon sangue, ma la situazione è ulteriormente degenerata dopo la morte per avvelenamento della maggior parte della famiglia. Constance, la figlia maggiore, colei che ha preparato quell'ultimo fatale pasto, è stata accusata di omicidio, ma assolta durante il processo; ciò però non ha allontanato i sospetti e gli sguardi malevoli dei compaesani, tanto che sono ormai sei anni che non esce più di casa. È Merricat, che all'epoca dei fatti aveva solo dodici anni, a mantenere una sorta di labile rapporto con l'esterno, recandosi due volte la settimana in paese per la spesa. Così come ogni oggetto della casa ha il suo posto che non può essere cambiato, le giornate delle due sorelle sono scandite da immancabili appuntamenti fissi, e proprio in quella routine sempre uguale a se stessa trovano la loro ragion d'essere, custodi di un tempo ormai andato, tramandato di generazione in generazione. Qualcosa però sta per cambiare: a Constance l'idea di uscire dalla casa non sembra più incutere la paura di un tempo, e l'arrivo del cugino Charles potrebbe alterare i consolidati equilibri.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Un'atmosfera inquietante, che diviene pian piano sempre più angosciante, accompagna il lettore pagina dopo pagina, e con grande maestria la Jackson porta avanti il racconto centellinando le informazioni su quella fatidica notte; il fatto stesso di scegliere come portavoce del resoconto del tragico evento lo zio Julian, l'anziano invalido sopravvissuto si al veleno, ma indubbiamente segnato nel corpo e nella mente, tanto da affermare un momento di ricordare perfettamente tutto l'accaduto, e il momento immediatamente successivo di non essere sicuro che sia successo o meno, contribuisce a lasciare costantemente nel dubbio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Ma è soprattutto la lucida follia, fatta di rituali scaramantici e deliri di onnipotenza, a creare la suspense: quanto innescato sei anni prima, potrebbe scatenarsi di nuovo, e chi sarà stavolta la vittima?
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Viene così a crearsi una sensazione di pericolo costante all'interno della casa, a cui si aggiunge il pericolo che viene dall'esterno, da quei paesani con cui i Blackwood non hanno mai avuto un buon rapporto, e che non perdono occasione di manifestare il loro odio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessuna via d'uscita: non si è davvero al sicuro né all'interno né all'esterno, schiacciati tra un Male tanto infantile quanto letale, e un Male adulto, cosciente che non esita a farsi violenza cieca.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessun salvatore, perché a prevalere è l'avidità, e l'amore stesso è morbosamente possessivo o colpevolmente indulgente.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Paradossalmente, però, nel finale viene tutto ribaltato in un antinomico happy ending: l'idea di un ritorno alla "normalità", di un abbandono di quella autoimposta segregazione viene definitivamente accantonata, e nella accettazione della reclusione si trova l'unica possibile felicità; solo in quel mondo creato dalla fantasia malata di una bambina che non è mai cresciuta, fatto di magie, rituali e scaramanzie, si è davvero al "sicuro", e Marricat è riuscita finalmente a "salvare" la sua adorata Connie.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
La prosa è estremamente scorrevole e il romanzo si divora in poco meno di un pomeriggio.
Una lettura sicuramente consigliata a chi è alla ricerca di un Gotico moderno, un horror che "non ha bisogno di alzare la voce".
"In memory of Shirley Jackson, who never needed to raise her voice."
E proprio da Stephen King e dal suo Danse Macabre si ricava una definizione di horror perfettamente calzante nel descrivere Abbiamo sempre vissuto nel castello:
The horror film is an invitation to indulge in deviant, antisocial behaviour by proxy – to commit gratuitous acts of violence, indulge our puerile dreams of power, to give into our most craven fears. Perhaps more than anything else, the horror story or horror movie says it’s OK to join the mob, to become the total tribal being, to destroy the outsider.
King parla di film e ha in mente un altro racconto della Jackson, La Lotteria, ma quanto scritto calza a pennello anche al mondo che viene delineato attraverso le parole di Mary Katherine,o, più affettuosamente, Merricat, la voce narrante della storia:
"Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti."
Già nell'incipit, in fondo, ci viene fornita la soluzione al mistero che aleggia sullo sfondo, la morte dei Blackwood una sera di sei anni prima, ed esplicitarla in quella che dovrebbe essere la rivelazione finale è quasi un surplus.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Due sorelle ed un anziano zio che vivono praticamente reclusi nella villa di famiglia, guardati con astio e livore dagli abitanti del paese: tra gli agiati e sdegnosi Blackwood e gli "altri" non è mai corso buon sangue, ma la situazione è ulteriormente degenerata dopo la morte per avvelenamento della maggior parte della famiglia. Constance, la figlia maggiore, colei che ha preparato quell'ultimo fatale pasto, è stata accusata di omicidio, ma assolta durante il processo; ciò però non ha allontanato i sospetti e gli sguardi malevoli dei compaesani, tanto che sono ormai sei anni che non esce più di casa. È Merricat, che all'epoca dei fatti aveva solo dodici anni, a mantenere una sorta di labile rapporto con l'esterno, recandosi due volte la settimana in paese per la spesa. Così come ogni oggetto della casa ha il suo posto che non può essere cambiato, le giornate delle due sorelle sono scandite da immancabili appuntamenti fissi, e proprio in quella routine sempre uguale a se stessa trovano la loro ragion d'essere, custodi di un tempo ormai andato, tramandato di generazione in generazione. Qualcosa però sta per cambiare: a Constance l'idea di uscire dalla casa non sembra più incutere la paura di un tempo, e l'arrivo del cugino Charles potrebbe alterare i consolidati equilibri.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Un'atmosfera inquietante, che diviene pian piano sempre più angosciante, accompagna il lettore pagina dopo pagina, e con grande maestria la Jackson porta avanti il racconto centellinando le informazioni su quella fatidica notte; il fatto stesso di scegliere come portavoce del resoconto del tragico evento lo zio Julian, l'anziano invalido sopravvissuto si al veleno, ma indubbiamente segnato nel corpo e nella mente, tanto da affermare un momento di ricordare perfettamente tutto l'accaduto, e il momento immediatamente successivo di non essere sicuro che sia successo o meno, contribuisce a lasciare costantemente nel dubbio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Ma è soprattutto la lucida follia, fatta di rituali scaramantici e deliri di onnipotenza, a creare la suspense: quanto innescato sei anni prima, potrebbe scatenarsi di nuovo, e chi sarà stavolta la vittima?
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Viene così a crearsi una sensazione di pericolo costante all'interno della casa, a cui si aggiunge il pericolo che viene dall'esterno, da quei paesani con cui i Blackwood non hanno mai avuto un buon rapporto, e che non perdono occasione di manifestare il loro odio.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessuna via d'uscita: non si è davvero al sicuro né all'interno né all'esterno, schiacciati tra un Male tanto infantile quanto letale, e un Male adulto, cosciente che non esita a farsi violenza cieca.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Non c'è nessun salvatore, perché a prevalere è l'avidità, e l'amore stesso è morbosamente possessivo o colpevolmente indulgente.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
Paradossalmente, però, nel finale viene tutto ribaltato in un antinomico happy ending: l'idea di un ritorno alla "normalità", di un abbandono di quella autoimposta segregazione viene definitivamente accantonata, e nella accettazione della reclusione si trova l'unica possibile felicità; solo in quel mondo creato dalla fantasia malata di una bambina che non è mai cresciuta, fatto di magie, rituali e scaramanzie, si è davvero al "sicuro", e Marricat è riuscita finalmente a "salvare" la sua adorata Connie.
Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.
La prosa è estremamente scorrevole e il romanzo si divora in poco meno di un pomeriggio.
Una lettura sicuramente consigliata a chi è alla ricerca di un Gotico moderno, un horror che "non ha bisogno di alzare la voce".